IL SALE E LA LUCE (Matteo 5, 13-16)

Sono questi i due termini di paragone che Gesù propone ai suoi discepoli (Matteo 5, 13-16) subito dopo aver proclamato le beatitudini, cioè lo stile di vita del cristiano. Ciò che Enzo Bianchi chiama “la differenza cristiana”. Perché se si è poveri, affamati, afflitti, perseguitati c’è ben poco da stare allegri; e d’altra parte non sono la misericordia, l’integrità, la mitezza e la nonviolenza ciò che serve per farsi strada in questo mondo. Ma le beatitudini dicono prima di tutto come Gesù ha affrontato la prova, o come (prima) si è preso cura delle persone che ha incontrato e dei loro guai.
Insomma, per il discepolo di Gesù il sapore da trasmettere e la luce da diffondere è una vita ispirata alle beatitudini, capace di andare in controtendenza rispetto a un modo di vivere le relazioni (con le persone e con Dio) e il rapporto con le cose e col potere secondo logiche troppo umane e mondane, che perseguono l’interesse e il piacere individuale, che prescindono da una visione ampia e comunitaria del bene inteso come pace e giustizia, come accoglienza incondizionata dell’altro, come disponibilità a pagare di persona facendosi carico delle sofferenze altrui.
Tutto questo non può essere sbandierato, esibito, fatto diventare motivo di vanto. Il bene – come affermò Gino Bartali quando si venne a saper del suo essersi prodigato per salvare gli ebrei a rischio della propria vita – bisogna farlo senza dirlo. E le medaglie, diceva ancora il grande campione, si appuntano non sulla giacca ma sull’anima.
Il sale non è fine a sé stesso, serve a dare sapore alle vivande. Se ce n’è troppo, il cibo diventa immangiabile (oltre a far male alle arterie!). Il cristiano non ha bisogno di esibire la sua fede, ma piuttosto raggiungere silenziosamente spazi umani apparentemente refrattari ma forse raggiungibili con una carità paziente, discreta, umile, disinteressata, che non chiede il contraccambio. Ciò che non è salato, dalle nostre parti, lo definiamo sciocco; in giro c’è tanta sciocchezza, stupidità, vacuità, superficialità… Dare sapore è trasmettere sapere, sapienza, parole chiare e giuste, senza discorsi troppo lunghi, evitando chiacchiere che sono il contrario della Parola.
Anche la luce non è fine a sé stessa, serve a illuminare, a far vedere bene le cose, soprattutto quelle belle: un paesaggio, un volto oppure un quadro, l’armonia dei colori della natura finiti sulla tavolozza di un bravo pittore. Gli artisti veri sono quelli che riescono a catturare la luce e farla brillare nelle loro opere. La luce del Vangelo è quella che fa chiarezza nelle coscienze, che illumina le zone oscure delle decisioni più difficili, che fa emergere le contraddizioni e le falsità. Troppa luce abbaglia, acceca. L’unica luce abbagliante sostenibile è quella delle vesti dei messaggeri della risurrezione, quando le donne vanno al sepolcro di Gesù e lo trovano vuoto. A noi, che a volte abbiamo la notte nel cuore e brancoliamo nel buio di una società che non sa dove andare, basterebbe una fiammella, un bagliore, il piccolo fascio di luce una torcia per trovare ciascuno la propria strada e accompagnare un fratello, una sorella.
E comunque, è certo in ogni caso che il sale è per dare sapore, la luce per diffondersi. Cioè il cristiano chiuso, che non comunica, che vive un’esistenza insignificante, che non entra nella pasta del mondo, che non irraggia bontà e bellezza, che non testimonia con la vita il Vangelo… che cristiano è?
 

Don Antonio Cecconi